All'inaugurazione del negozio Moncler di Prince Street è venuta anche Anna Wintour. Mi ha molto colpita, dal vivo. Soprattutto perché, alle 18.30, indossava lo stesso abito che aveva alle 7.30 di quel mattino, quando l'aveva intervistata la Cbs, per promuovere un documentario sulla locale Vogue Fashion's Night Out. Sembrerà una sciocchezza ma, visto il personaggio, non è un dettaglio da poco, per una signora che – stando ai suoi detrattori – perde un sacco di tempo a cambiarsi d'abito più volte durante il giorno. Forse in altre giornate l'avrebbe anche fatto ma martedì 14 deve essere stata anche lei in un frullatore di impegni. E questo me la rende simpatica: è donna di potere, senz'altro, ma anche una lavoratrice indefessa pur non essendo più una ragazzina e deve anche resistere agli assalti delle più giovani (come spiega Maria Luisa Agnese oggi sul Corriere della sera) e in particolare di Carine Roitfeld, magnetica direttrice di Vogue Francia. Ma torniamo all'atmosfera generale. E al mio amore per New York (qui accanto, la copertina del New Yorker del 29 marzo 1976 disegnata da Saul Steinberg e poi straimitata)
La settimana della moda è sicuramente un momento di alta concentrazione di feste, opening, via vai da ristoranti e locali e, come ha scritto Guy Trebay sul New York Times, A City Gets Its Groove Back, la città si è definitivamente, rianimata. La crisi economico-finanziaria – o almeno i suoi effetti psicologi sui newyorchesi – sembra alle spalle. E' la cosa che mi piace di più degli americani, per come li conosco io: non sono capaci di piangersi addosso, non portano il peso del passato, né di quello vicino né di quello più lontano. Noi italiani, secondo me, siamo l'opposto. La cosa migliore probabilmente sarebbe una via di mezzo. Ma dovendo scegliere, sposo l'approccio americano. E da stasera è ufficiale: cerco lavoro a New York.