Volando da New York a Los Angeles (sei ore… gli Stati Uniti sono pur sempre il quarto Paese al mondo per estensione geografica!) ho visto tre film: il biopic su Steve Jobs, Blue Jasmine di Woody Allen e "20 feet from stardom", un documentario sui backsingers, quei cantanti, uomini ma soprattutto donne, di cui non conosciamo i nomi e spesso neppure le facce ma che sono come il basso in un complesso rock. Senza di loro, un brano, un intero disco, un concerto dal vivo o un tour non sarebbero la stessa cosa. I cantanti o le vere e proprio rockstar (Sting e Bruce Springsteen e Mick Jagger sono solo alcuni dei personaggi intervistati per il documenterio) riconoscono il ruolo dei backsingers, con un misto di riconoscenza, ammirazione e stupore. Perché sanno benissimo quale contributo fondamentale i backsingers diano alla loro arte e perché allo stesso tempo faticano a comprendere come persone con tanto talento e personalità e presenza sul palco (quasi tutti sanno cantare E ballare) possano starsene tranquilli "in seconda fila", a servizio della gloria di qualcun altro, senza voler fare il grande passo e percorrere, appunto, quei "20 feet" che li separano dall'essere una star. Alcuni, come Springsteen, sembrano sentirsi in colpa e cercano di convincersi e di convincere chi ascolta che i backsingers hanno un problema psicologico, di autostima, di fiducia in sé e di paura della fama e per questo scelgono di starsene, confortevolmente, a venti piedi dalla popstar, protetti dalla sua luce e dal suo successo. Altri, come Sting, in particolare quando parla di Lisa Fischer, sono ammirati e stupiti – perché sanno di essere sempre stati mossi da altre motivazioni – e forse anche un pizzico invidiosi della capacità dei backsingers di non aver bisogno di diventare e rimanere delle star. Sting aggiunge che non necessariamente chi arriva al successo, al successo mondiale e che dura decenni, è il migliore. Il percorso verso la "stardom" – dice – è una combinazione di circostanze più o meno fortunate, di tratti della personalità che nulla hanno a che fare con il talento e di "destino".
Nel giorno in cui è stato ufficializzato l'arrivo di Nicholas Ghesquiere alla direzione creativa di Louis Vuitton, dopo l'uscita di Marc Jacobs, mi è sembrato naturale, ascoltando le storie dei backsingers, pensare a tutte le persone che lavorano negli uffici stile, spesso sono il braccio destro e sinistro degli stilisti star, dei frontmen e frontwomen delle aziende, come Ghesquiere e Jacobs. Ma non conosciamo i loro nomi e forse non li conosceremo mai. Ogni tanto qualcuno tenta una "solo career", come fanno i backsingers, e se sono giovani a volte alimentano davvero il ricambio generazionale dei direttori creativi. Molto più spesso però restano nell'ombra e, come molti backsingers, a loro va bene così, tutto sommato (c0me in ogni lavoro e in ogni situazione emotiva che attraversiamo gli stati d'animo saranno spesso contrastanti e a volte addirittura conflittuali, ma alla fine, la famosa bilancia penderà, oppure no, dalla parte dei venti piedi indietro rispetto al bordo del palco, da cui è così facile cadere o scivolare…)
Bisogna esserci nati, insomma, per stare in primo piano. Con tutte le soddisfazioni e i rischi che questo comporta. Chi resta venti piedi indietro, se lo fa più o meno consapevolmente (in caso contrario subentrano ovviamente innumerevoli frustrazioni e recriminazioni), non avrà certe soddisfazioni, riconoscimenti e momenti di gloria. Ma correrà anche meno rischi e per questo sarà, in un certo senso, un pochino più libero, anche di sbagliare. E sarà un po' più libero dal giudizio degli altri (anche se l'autocritica può essere ancora più feroce della critica degli altri!)
Tornando al documentario, mi ha colpita la bellezza delle donne, al 99,99% nere. Belle facce, oltre che splendide voci, ovviamente, bei sorrisi, bel modo di raccontare e ricordare. Alcune, anche per motivi generazionali e sociali (donne e nere negli anni 60 e 70 e persino 80… non esattamente una condizione ideale per fare carriera, in qualsiasi campo!), non hanno avuto quello che, giustamente, pensavano di meritare in termini di visibilità e successo economico. E alcune, pur con una certa raggiunta serenità generale, non sono del tutto rappacificate con chi le ha tenute al margine. Altre invece – in particolare le più giovani, come Lisa Fischer (classe 1958, parte integrante, ad esempio, di ogni tour dei Rolling Stones dagli anni 80 in poi) - sono consapevoli delle loro scelte esistenziali e sembrano contente. Altre ancora, come Judith Hill (una delle ultime persone a provare con Michael Jackson, a pochi giorni dalla morte, per il tour del rientro), ammettono di aspirare ad altro, a una carriera di solista, ma per ora non sono riuscite a raggiungere quel tipo di successo.
Ieri sera, appena arrivata in albergo, ho sfogliato il press kit che ci ha preparato l'ufficio stampa di Zegna, al solito efficientissimo. Siamo qui per l'apertura di un global store firmato dall'archistar Peter Marino (un altro che a venti piedi dalla "stardom dell'architettura" non ha proprio mai pensato di starci!) e tra il materiale che ci hanno preparato c'è una biografia di Stefano Pilati, direttore creativo, dal 2012, di Ermenegildo Zegna Couture e di Agnona. Ecco, lui è un esempio di stilista che ha iniziato, ovviamente, in un ufficio stile, è diventato braccio destro di altri (Giorgio Armani, Miuccia Prada, Tom Ford… se non sono star loro!) ma poi ha sentito il richiamo del palco ed è diventato direttore creativo di Yves Saint Laurent e ora di Zegna. Un percorso che sicuramente gli ha dato immense e meritate soddisfazioni, ma che ha sicuramente avuto i suoi momenti di difficoltà, anche personali.
Io non ho una preferenza, una ammirazione particolare per backsingers oppure star, di qualsiasi campo si parli, moda, architettura, musica, medicina, editoria… Chi mi affascina davvero sono le persone che, qualsiasi scelta abbiano fatto, in modo più o meno fortuito o consapevole, a un certo punto trovino il loro posto nel mondo, rappacificati con se stessi (e soprattutto con i propri limiti) e con chi li circonda.