Io ho il mito del giornalismo anglosassone e americano in particolare, anche perché tra tutti i "giornalismi" del mondo è quello che frequento di più, da lettrice. Adoro il fatto che esistono ancora alcune divisioni, tipo Stato-Chiesa, ereditate dal passato o anche, per così dire, di tipo 2.0. Sui siti del New York Times, Washington Post, Wall Street Journal ecc ecc ad esempio è IMPOSSIBILE trovare notizie di gossip e relative gallery, ad esempio. O cronaca nera acchiappa clic. O notizie che sulla carta non avrebbero ragione di stare. Fatevi un giro su repubblica.it o corriere.it e ditemi se possiamo dire la stessa cosa in Italia. Poi c'è la questione della qualità della scrittura, dei refusi, degli errori. Nella maggior parte delle redazioni anglosassoni esistono ancora i "fact checkers" e i "copy editors". Qui da noi cerchiamo di rileggerci i pezzi tra colleghi e fare da soli i controlli che servono su date, nomi ecc. Ma purtroppo i nostri articoli sono pieni di errori. C'è anche un'altra divisione Church-State che, si dice (qui la certezza potrei averla solo lavorando in un giornale americano), sopravvive nelle redazione anglosassoni: ed è quella tra la parte giornalistica e il marketing/comunicazione, che non devono neppure parlarsi. Per rispetto della libertà del giornalista di scrivere quello che vuole, per rispetto, a sua volta, del lettore. Di questo e altro Suzy Menkes parla nell'intervista a Wwd che citerò a breve.
Ma torniamo alle mie premesse: mi piace molto come scrive Suzy Menkes e non ho alcuna ragione per contraddire chi la descrive come autorevole, indipendente, a volte tagliente ecc ecc (sono anni che non si trova qualcuno che non dico la critichi ma almeno non la elogi…). Però è del 1943, ha compiuto 70 anni, io non penso che si possa avere sempre la stessa freschezza, non credo lei l'abbia più. E' un'età, credo, in cui il vantaggio maggiore è poter riflettere sulle cose, perché ne hai viste, sentite, lette tantissime. Invece lei va in Conde Nast a scrivere online, con ritmi veloci o velocissimi, par di capire, proprio perché adora la velocità. Va a fare il lavoro che secondo me compete a redattori junior. Giovani super energetici, come quelli che descriveva Giuliano Ferrara ieri sul Foglio, cioè giovani e già competentissimi, nel suo pezzo (bellissimo) "Voglio alzare le mani davanti alla bravura dei giovani talenti". Ma veloci per natura, non per volontà. Forse Suzy Menkes mi stupirà, ma al momento in cui ho letto la notizia questo suo autocondannarsi a essere sempre lì, sempre online, sempre connessa, sempre opinionated a due minuti dalla fine di una presentazione, di una sfilata, di un evento, di un annuncio, mi ha dato un senso di forzatura, di disagio, di occasione perduta, anche. Per lei, si intende.
Veniamo un attimo all'intervista (su Wwd la possono leggere integralmente gli abbonati), vi riporto le tre risposte che mi hanno più colpita:
WWD: Do you see a future for newspapers and print journlism?
SM: There is always going to be a place for wonderful magazines with fantastic pictures. I also believe that with newspapers, ther will be a royalty of newspaers who will survive in the print form, maybe not all over the world
WWD: And how do you see digital evolving?
SM: Ther's also going to be an enormous continuing spread online, and of course I love it because it's fast. That said, I think at the moment the online media in fashion is just an absolute mass of stuff that will thin put as everything does. Just as some magazines ultimately don't survive and others rise to the top, so it will be with writers.
WWD: But you think fashion journalism is still a great career?
SM: I don't think it's enough to love fashion. I have this motto I have said to anyone I have ever worked with. "IT'S NOT GOOD BECAUSE YOU LIKE IT; YOU LIKE IT BECAUSE IT'S GOOD"
Da oggi sarà anche il mio motto, Suzy.